Il ministero della salute ha deciso di avviare una campagna sulla fertilità per sensibilizzare il popolo italiano sul calo demografico a cui deve far fronte il nostro paese.
Fin qui non ci sarebbe nulla di male. Il problema è che tale campagna, con immagini e sito web (offline nel momento in cui scrivo), è stata studiata e creata come peggio non si poteva. Invece di affrontare il tema della fertilità fornendo informazioni sui comportamenti più adeguati per non metterla a rischio si usano parole e concetti che non fanno altro che colpevolizzare chi di figli non ne vuole o non ne può avere.
L’immagine che trovo più sconcertante è quella che vedete qui a lato. “La fertilità è un bene comune”. Davvero? L’acqua è un bene comune, la fertilità al massimo è un bene mio e come tale dovrebbe essere trattato. Personalmente trovo queste parole, e quelle che accompagnano le altre immagini, poco rispettose della libertà di autodeterminazione del singolo individuo. Per non parlare del fatto che in Italia i figli non si fanno per tutta una serie di problemi sociali che questa campagna sembra ignorare. La cecità del ministero della salute al riguardo è davvero imbarazzante.
Negli ultimi giorni la polemica scatenatasi intorno a questa iniziativa è stata forte (alcuni esempi qui, qui e qui). Di oggi la risposta della ministra Lorenzin a tutte le polemiche, trovate l’articolo a questo link.
L’aspetto che trovo più grave è che questa campagna è accompagnata da un “Piano nazionale per la fertilità” (qui il testo integrale) che per arretratezza culturale e scarsa sensibilità nei confronti di uomini e donne italiani va di pari passo con gli slogan citati.
Per questo motivo alcune colleghe e colleghi psicologi hanno scritto una lettera aperta alla Ministra Lorenzin, parole che mi sento di sottoscrivere pienamente. Questo il contenuto della lettera (qui trovate la versione originale):
Lettera aperta alla ministra Lorenzin
Gentilissima Ministra Lorenzin,
siamo un gruppo di psicologhe e psicologi e leggiamo con stupore dell’iniziativa del “Fertility Day”, stupore che si trasforma in sconcerto alla lettura del Piano Nazionale per la Fertilità.
Troviamo poco comprensibile attribuire una responsabilità rispetto alla maternità tardiva alle donne e troviamo umiliante che la campagna sottolinei il ticchettio dell’orologio biologico, in una nazione in cui non esiste più stabilità lavorativa, non ci sono supporti validi alla maternità e alla genitorialità in generale, dove la gestione e l’accudimento dei figli vede per lo più attive iniziative private, peraltro costosissime, o nonni faticosamente disponibili, una nazione, inoltre, in cui i prerequisiti alla genitorialità sono assenti o assai precari: in primis difficoltà di reperimento del lavoro, difficolta di accesso alle case popolari ed anche difficoltà enormi di accedere a mutui, difficoltà ancora più accentuate dalla precarizzazione istituzionalizzata del lavoro.
Per quanto riteniamo condivisibile la volontà istituzionale di avviare una campagna di SALUTE sul tema della fertilità, troviamo QUESTA iniziativa confusiva e dannosa; pericolosa e depersonalizzante è l’affermazione che si legge in una delle cartoline proposte dalla campagna “la fertilità è un bene comune”, perché NO, la fertilità non è una performance pubblica, è un fatto privato e soggettivo che pertiene una cosa intima, il corpo delle donne è delle donne e il modo in cui decidono di disporne appartiene a loro. Lo stesso discorso, ovviamente, riguarda anche gli uomini e il loro diritto di disporre del proprio corpo e di decidere della propria fertilità secondo sentimenti e scelte personali.
Questo tipo di comunicazione va ad aggravare, peraltro, una già osteggiata applicazione di una legge (Legge n.194/1978) che prevede libertà di scelta da parte della donna rispetto alla gravidanza e alla sua prosecuzione, nel rispetto dei limiti temporali e clinici previsti, poiché sottindende, a tratti in modo invasivo e giudicante, proprio questa eventuale scelta.
Proviamo stupore e sconcerto nel leggere nel Piano Nazionale “Cosa fare, dunque, di fronte ad una società che ha scortato le donne fuori di casa, aprendo loro le porte nel mondo del lavoro sospingendole, però, verso ruoli maschili, che hanno comportato anche un allontanamento dal desiderio stesso di maternità? La collettività, le istituzioni, il competitivo mondo del lavoro, apprezzano infatti le competenze femminili, ma pretendono comportamenti maschili.” Quindi esistono ruoli maschili e femminili? Quindi le donne che scelgono di crescere professionalmente sono da considerarsi mascoline? Sono mascoline le donne che lavorano nell’esercito, forse? Ci stiamo dicendo questo? Come ignorare gravi affermazioni istituzionali quali: “La crescita del livello di istruzione per le donne ha avuto come effetto sia il ritardo nella formazione di nuovi nuclei familiari, sia un vero e proprio minore investimento psicologico” che richiamano, quasi con nostalgia, i tempi dell’oscurantismo sociale e culturale che condannavano la donna a ruoli e funzioni secondarie, subalterne e di dipendenza nei confronti dell’uomo; condizione, questa, che si è cercato di combattere e contrastare fin dai tempi del Risorgimento! Dovremmo forse augurarci, come italiani, che le donne rinuncino ad accedere ai livelli più alti dell’istruzione di questo paese? Studiare, laurearsi, emanciparsi, intraprendere una carriera, perseguire la realizzazione come persona e come donna, sembravano, negli ultimi decenni, gli imperativi da raggiungere, se non fosse che adesso, alle donne, viene ricordato che stanno venendo meno alla loro funzione riproduttiva.
Troviamo pericolosissime queste affermazioni, quando soprattutto non si mette in evidenza che in Italia non è mai stata fatta una politica seria, che finanziasse, ad esempio, gli asili nidi all’interno delle aziende, non ci sono campagne di educazione sanitaria che informino adeguatamente su malattie che sono al primo posto come cause per l’infertilità, quali il varicocele maschile e l’endometriosi nelle donne.
Sottolineiamo, inoltre, la questione del doveroso RISPETTO per tutte le condizioni di non genitorialità, sia quelle delle persone, donne e uomini, che non hanno la possibilità biologica, psicologica ed economica di generare, sia di quelle che hanno operato una consapevole e legittima scelta non procreativa.
Non è chiaro perché lo Stato Italiano debba nuovamente entrare a piedi uniti su una questione così privata e con questi termini che ricordano, in modo fin troppo esplicito, il triste periodo storico del fascismo italiano, durante il quale, tra i molti e diversi modi in cui la democrazia veniva calpestata, si scelse di avviare campagne di invito alla procreazione, sottese unicamente dall’ideologia fascista “il numero è potenza”. Forse le nostre nonne e bisnonne – quelle pluripare accanite – se avessero potuto decidere di fare altro, magari l’avrebbero fatto.
Troviamo questa campagna oltraggiosa come donne, come uomini, come persone, ma soprattutto, come professionisti della salute, la troviamo pericolosa per una popolazione femminile, già vessata da condizioni estremamente difficoltose per la scelta di procreare, perché le cartoline potrebbero indurre ad un significativo vissuto di colpa patogeno. Una campagna paradossalmente contraria, e non a favore, di donne che potrebbero sentirsi in colpa perché è come se disattendessero un’aspettativa naturale, quando forse quell’aspettativa è più culturale di quanto non si creda. Essere madre o padre rappresenta una scelta/un’opportunità, nella stessa misura in cui si è donna e non madre per scelta o per circostanza o uomo e non padre per gli stessi motivi.